Minimale contributivo per le cooperative che deliberano un piano di crisi aziendale

 


L’Inps fornisce alcune precisazioni sulla corretta individuazione dell’obbligo contributivo in capo alle società cooperative nell’ipotesi di deliberazione di un piano di crisi aziendale.


Il regolamento interno delle società cooperative deve, in ogni caso, contenere l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare, all’occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi, con il divieto, per l’intera durata del piano, di distribuire eventuali utili, nonché la possibilità di prevedere “forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie”, fatto salvo “il rispetto del solo trattamento economico minimo”.
Relativamente agli aspetti di carattere previdenziale, ai fini della contribuzione previdenziale ed assicurativa si fa riferimento alle normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporti di lavoro adottabili dal regolamento delle società cooperative.
Le disposizioni secondo cui, il regolamento della cooperativa deve prevedere, in ogni caso, la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti retributivi, produce effetti anche sulla determinazione e quantificazione del minimale contributivo.
La disciplina sui minimali contributivi è contenuta nell’articolo 1, comma 1, del DL 9 ottobre 1989, n. 338, secondo cui “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”.
Per il periodo di durata del piano di crisi, opera il minimale di retribuzione giornaliera.
Infatti, nel caso di specie, è la legge, ovvero il combinato disposto di cui agli articoli 4 e 6, che introduce in via sistematica una specifica ipotesi di “deroga” alla disciplina del minimale contributivo.
Le “crisi” cui fanno riferimento le disposizioni in parola si caratterizzano per la particolare gravità e straordinarietà che potrebbero compromettere la continuità aziendale.
Inoltre, al fine di evitare possibili abusi a danno dei soci lavoratori, la deliberazione del “piano di crisi aziendale” deve contenere elementi adeguati e sufficienti tali da esplicitare: l’effettività dello stato di crisi aziendale che richiede gli interventi straordinari consentiti dalla legge; la temporaneità dello stato di crisi e dei relativi interventi; uno stretto nesso di causalità tra lo stato di crisi aziendale e l’applicabilità ai soci lavoratori degli interventi in esame.
Le misure indicate possono concorrere con le forme di sostegno al reddito e dell’occupazione alle quali la cooperativa abbia accesso a norma di legge, avendo cura che i predetti strumenti siano opportunamente coordinati allo scopo di ottenere dai soci apporti sostanzialmente equilibrati.
Tanto premesso, esclusivamente per il periodo di durata del piano di crisi aziendale deliberato, è consentito il superamento della generale disposizione di cui all’articolo 1, comma 1, del D.L. n. 338/1989. Pertanto, limitatamente al periodo di durata del piano di crisi aziendale, l’obbligazione contributiva deve essere quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero (Messaggio Inps 8 giugno 2022, n. 2350).

 

Provvedimento di sospensione dell’attività con effetto posticipato

 


L’Ispettorato Nazionale del Lavoro precisa che con la nuova disciplina del provvedimento di sospensione dell’attività, gli ispettori possono posticiparne gli effetti nei casi in cui l’interruzione della stessa potrebbe comportare gravi conseguenze ai beni ed alla produzione o compromettere il regolare funzionamento di un servizio pubblico. (Nota 07 giugno 2022, n. 1159).

A seguito dell’introduzione del “nuovo” provvedimento di sospensione, a differenza della previgente disciplina, non è più contemplata la discrezionalità in capo al personale ispettivo, fatta salva la possibilità di farne decorrere gli effetti in un momento successivo, a meno che non si riscontrino situazioni di pericolo imminente o di grave rischio per la salute dei lavoratori o dei terzi o per la pubblica incolumità.
Tuttavia, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha chiarito che resta ferma la necessità di valutare circostanze particolari che suggeriscano, sotto il profilo dell’opportunità, di non adottare il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale.
Tali circostanze sono anzitutto legate ad esigenze di salute e sicurezza sul lavoro. In altre parole, laddove la sospensione dell’attività possa determinare a sua volta una situazione di maggior pericolo per l’incolumità dei lavoratori o di terzi è opportuno non emanare alcun provvedimento.
In tal senso, dunque, l’Ispettorato ha fornito indicazioni al personale ispettivo di non adottare il provvedimento di sospensione quando l’interruzione dell’attività svolta dall’impresa determini a sua volta una situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori della stessa o delle altre imprese che operano nel cantiere (si pensi, ad esempio, alla sospensione di uno scavo in presenza di una falda d’acqua o a scavi aperti in strade di grande traffico, a demolizioni il cui stato di avanzamento abbia già pregiudicato la stabilità della struttura residua e/o adiacente o, ancora, alla necessità di ultimare eventuali lavori di rimozione di materiali nocivi).
La mancata adozione del provvedimento di sospensione costituisce, pertanto, un’extrema ratio rispetto alla fisiologica applicazione della normativa, determinata dal rischio che dall’adozione del provvedimento possano derivare situazioni di pericolo imminente o di grave rischio per la salute dei lavoratori o dei terzi o per la pubblica incolumità.


Tale valutazione va effettuata in rapporto alla fattispecie concreta da parte del personale ispettivo, effettuando un bilanciamento degli interessi coinvolti nel caso di specie e la decisione della mancata adozione va accuratamente motivata, indicando già nel verbale di primo accesso i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione.


A tal fine, può ritenersi un grave rischio per la pubblica incolumità la sospensione di un servizio pubblico che, in assenza di valide alternative che possano garantire l’esercizio di diritti spesso di rango costituzionale, va dunque salvaguardato (ad es. attività di trasporto, di fornitura di energia elettrica ecc.).
Analogamente è possibile che dalla sospensione dell’attività di allevamento di animali derivi un grave rischio per la pubblica incolumità, stanti peraltro le conseguenze di natura igienico sanitaria legate al mancato accudimento.
In tutte le ipotesi in cui non ricorrano i presupposti per una mancata adozione del provvedimento di sospensione, gli ispettori possono valutare il posticipo degli effetti della sospensione in un momento successivo a quello dell’adozione del provvedimento, qualora valutino che dallo stesso possano comunque derivare significativi danni per ragioni tecniche, sanitarie o produttive (ad esempio, per l’interruzione di cicli produttivi avviati o danni agli impianti per l’improvvisa interruzione, raccolta dei frutti maturi, vendemmia in corso, ecc.). Ciò a condizione che dal posticipo non derivino rischi per la salute dei lavoratori o dei terzi o per la pubblica incolumità.
Laddove, medio tempore, stante il posticipo degli effetti del provvedimento di sospensione, l’azienda provveda a regolarizzare le violazioni riscontrate, il provvedimento può comunque essere revocato.


L’Ispettorato ha infine precisato che in ogni caso la continuazione dell’attività per mancata adozione del provvedimento o per posticipazione dei suoi effetti deve comunque avvenire nel rispetto di ogni condizione di legalità e di sicurezza, pertanto sarà ad esempio impedito ai lavoratori cd. “in nero” di continuare a svolgere la propria attività sino ad una completa regolarizzazione e la possibilità di “imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro”.

 

Attribuzione del codice fiscale ai minori stranieri non regolari e non accompagnati

 


I minori stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale ed usufruiscano dell’assistenza sanitaria in condizione di parità con i cittadini italiani. (AGENZIA DELLE ENTRATE – Risoluzione 07 giugno 2022, n. 25/E)

L’iscrizione è obbligatoria e gratuita al Servizio Sanitario Nazionale dei minori stranieri non accompagnati, anche nelle more del rilascio del permesso di soggiorno, a seguito delle segnalazioni di legge dopo il loro ritrovamento nel territorio nazionale.
Sulla base di tali disposizioni normative a tutela dei minori stranieri, in ragione della loro condizione di maggiore vulnerabilità, e considerato che, allo stato attuale, il codice fiscale è il codice identificativo ritenuto indispensabile per l’iscrizione al SSN a cura delle strutture ASL, si rende necessaria l’attribuzione del codice fiscale a tale tipologia di minori stranieri, ancorché privi di un regolare permesso di soggiorno.
Al fine di uniformare il comportamento degli Uffici dell’Agenzia delle entrate su tutto il territorio nazionale, si forniscono, pertanto, le seguenti indicazioni operative qualora al minore non sia stato già attribuito un codice fiscale.
Le richieste di attribuzione del codice fiscale relative ai minori stranieri devono essere presentate agli uffici dell’Agenzia delle entrate dalla struttura ASL tenuta all’iscrizione al SSN dei soggetti stranieri in oggetto. La ASL richiede il codice fiscale in qualità di soggetto terzo obbligato all’indicazione del codice fiscale di altri soggetti.
Le sopraindicate richieste devono essere presentate dalla struttura ASL competente tramite il modello anagrafico AA4/8 – Domanda di attribuzione codice fiscale, comunicazione variazione dati e richiesta tesserino/duplicato tessera sanitaria (persone fisiche) come richiesta per soggetto terzo, indicando come tipologia richiedente il codice 17 – Soggetti tenuti agli obblighi di indicazione del codice fiscale di soggetto terzo, come ad esempio enti previdenziali, banche, associazioni sportive, ecc. ovvero, se relative a più minori, tramite un’unica istanza contenente tutte le informazioni previste dal suddetto modello per ogni minore. Deve essere allegata, inoltre, una dichiarazione della struttura ASL richiedente che attesti la motivazione della richiesta del codice fiscale e la corrispondenza dei dati indicati nella stessa con quelli desunti dagli atti in base ai quali effettua l’iscrizione al SSN.
L’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che riceve la domanda deve acquisire agli atti l’eventuale documentazione prodotta dalla struttura ASL ed effettuare preventivamente la ricerca del soggetto negli archivi dell’Anagrafe Tributaria, anche per dati anagrafici parziali; ciò al fine di verificare che questi non sia già titolare di un codice fiscale, registrato sulla base di dati anagrafici difformi da quelli dichiarati dalla struttura ASL.
Una volta generato il codice fiscale, l’Ufficio lo comunica all’ASL richiedente: sarà cura di tale struttura comunicare il codice fiscale a chi ne ha la responsabilità genitoriale o al responsabile della struttura di prima accoglienza.
Le strutture ASL interessate potranno stipulare con le rispettive Direzioni Regionali dell’Agenzia delle Entrate appositi protocolli d’intesa volti a concordare modalità operative efficaci ed agevoli per lo scambio delle suddette informazioni.

 

IRAP: l’assenza dell’autonoma organizzazione va provata

 


Qualora il professionista affidi a terzi in modo occasione le incombenze tipiche dell’attività professionale, è tenuto a provare l’insussistenza dell’autonoma organizzazione quale presupposto impositivo dell’Irap (Corte di cassazione – – ordinanza 20 maggio 2022, n. 16391).

Secondo i giudici della Corte, in tema di IRAP, l’impiego non occasionale di lavoro altrui, quale elemento significativo dell’esistenza di un’autonoma organizzazione, che costituisce, a sua volta, presupposto dell’imposta, può essere desunto dai compensi corrisposti a terzi, purché correlati allo svolgimento di prestazioni non occasionali, afferenti all’esercizio dell’attività del soggetto passivo.
Sempre in tema di IRAP, il promotore finanziario è escluso dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata.
Il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente:
– sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
– impieghi beni strumentali eccedenti, secondo “l’id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.


Costituisce onere del contribuente, che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta, dare la prova dell’assenza delle predette condizioni.
Pertanto, nel giudizio d’impugnazione della cartella di pagamento emessa dall’Amministrazione finanziaria per omesso versamento dell’imposta nella misura indicata nella dichiarazione dei redditi, spetta al contribuente che ritratti la propria dichiarazione provare il fatto impedivo dell’obbligazione tributaria (asserita mancanza dell’autonoma organizzazione), determinandosi, altrimenti, un’irrazionale disparità di trattamento tra coloro che chiedono il rimborso di un’imposta versata e non dovuta, onerati di fornire la prova del diritto alla restituzione, e coloro che, dopo essersi dichiarati soggetti ad imposizione ed averne indicato l’ammontare in dichiarazione, ne omettono, in tutto o in parte, il versamento.


 

Decadenza incentivi per la valorizzazione edilizia

 


L’Agenzia delle entrate, con la risposta del 6 giugno 2022, n. 324, ha fornito precisazioni sulla decadenza degli incentivi per la valorizzazione edilizia, di cui all’articolo 7 del DL n. 34 del 2019.

Nel caso di specie, la società istante fa presente di aver acquistato, in data 4 marzo 2020, un immobile fruendo delle agevolazioni fiscali recate dall’articolo 7 del decreto legge 30 aprile 2019, n. 34, ossia dell’applicazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura fissa di euro 200 ciascuna.
In sintesi, la norma in esame, che ha trovato applicazione sino al 31 dicembre 2021, ha previsto un’agevolazione per i trasferimenti di interi fabbricati, a favore di imprese di costruzione o di ristrutturazione immobiliare, che, entro i successivi dieci anni, provvedano alla demolizione e ricostruzione degli stessi o eseguano, sui medesimi fabbricati determinati interventi edilizi (in entrambi i casi conformemente alla normativa antisismica e con il conseguimento della classe energetica “NZEB, A o B”), e poi procedano alla successiva alienazione.
Al riguardo, l’istante rappresenta che è ” in corso di vendita l’immobile senza appunto aver eseguito la trasformazione della classe energetica come previsto nel decreto sopracitato”.
Tale circostanza (vendita in assenza della valorizzazione) comporta, la decadenza dal regime agevolativo in parola, con applicazione dell’imposta di registro in misura ordinaria; la stessa, quindi, chiede di conoscere se sia possibile procedere al pagamento dell’imposta a seguito di autodenuncia resa all’Amministrazione finanziaria, senza applicazione di sanzione ovvero con applicazione della sanzione riducibile tramite l’istituto del ravvedimento operoso.
Con riferimento alla fattispecie rappresentata, l’Agenzia delle entrate osserva che la vendita dell’intero immobile, acquistato fruendo della predetta agevolazione fiscale, prima del decorso del termine di dieci anni previsto dall’articolo 7 del citato decreto legge n. 34 del 2019 senza che sia stata effettuata l’attività di valorizzazione descritta, impedisce il rispetto delle predette condizioni e, di conseguenza, integra una ipotesi di decadenza dall’agevolazione medesima, con applicazione delle ” imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una sanzione pari al 30 per cento delle stesse imposte.”.